RABBIA A NEW ORLEANS

dicembre 30, 2007

  Il titolo di un libro è una scommessa. Quando uno l’azzecca ha il destino dalla sua. Nel 94 Jim Burke ne ha vinta una centrando un titolo secco e perfetto – Dixie city jam – e confezionando uno dei suoi capolavori assoluti, usciti in Italia con il titolo (mica male anche questo) di Rabbia a New Orleans (Baldini e Castoldi). La narrazione è una visione ebbra, un hard boiled visionario e fuori controllo: un sommergibile nazista sui fondali del Golfo del Messico, un manipolo di folli che cercano di recuperarlo, Dave Robicheaux che si trova in mezzo alle macchinazioni di ingenui, di artisti e di criminali. Nelle sue vicende personali, Dave è felicemente sposato con Bootsie, mente la figlia Alafair cresce, il fido aiutante Batist si occupa di esche, barchini e canne da pesca al cottage sul bajou Teche e Clete Purcel si diverte a distruggere case, auto e dentiere dei soliti mafiosi di New Orleans. Mentre tutto questo va avanti come scritto nel destino del mondo, appare dall’inferno dell’uomo il signor Will Buchalter. Nelle 352 pagine del libro, Buchalter – che non è “solo” nazista, ma che porta dentro di se una visione di cui il nazismo, la fratellanza ariana è solo una parte della recita –  fa tempo a umiliare Bootsie e a far scorrere torrenti di sangue, sempre accompagnato da una donna suo pari, Marie Guilbeaux.

La visione che lascia dentro l’epilogo di Dixie City Jam è inquietante: i cattivi muoiono, per fortuna. Non c’è altra giustizia per loro che la morte, sanguinosa e cruenta. Dave, Clete e l’agente Lucinda Bergeron osservano la morte mentre si prende il frutto delle sue vincite al banco. Le ultime righe sono un sotterfugio esistenziale, per evitare di far iniziare la vita di un ragazzino sotto la stella del sangue: solo Jim poteva pensarci. Si vede che ha dei figli.

Il libro è strepitoso. Uno dei più belli in assoluto della produzione di Burke. Come sempre il sangue non è gratuito. I cattivi non sono maniaci per nulla. Non c’è ombra di serial killer. Ognuno ha un movente. Ognuno ha una “causa”. Voto altissimo per un libro che ho già riletto un 5-6 volte.

 I “cattivi” di Jim Burke sono “realmente cattivi”. Uno potrebbe dire: che razza di osservazione è questa? Siamo nella più pura banalità… E invece no (secondo me, almeno). Cerco di motivare l’affermazione apparentemente banale: i cattivi di Jim sono “cattivi perché reali” e non “reali perché cattivi”. Bobby Joe Starkweather, Larry Wineburger, Didi Gee Giacano, Julio Segura, Philip Murphy, come pure il corrotto Nate Baxter, realizzano il male in modo assolutamente tangibile: guardando i “cattivi” di Pioggia al neon, si scopre che sono una filiera umana che si svolge e si dipana dalle prime pagine fino alle ultime “facendo cose reali”. Può pure essere che il cattivo sia a servizio di un “buono che ha perso la ragione”, di un “buono a cui è stata fatta violenza”, vale a dire il generale Jerome Gaylan Abshire, non importa. In Pioggia al neon ci sono mercenari e torturatori che vengono dal Nicaragua, professionisti dei servizi segreti deviati e poliziotti marci, ma benestanti, mafiosi malati e condannati a morte, puttane che pagano a un prezzo altissimo la propria incapacità a vivere e papponi tossici oltre il dovuto. Il tutto per realizzare un progetto, vero, autentico, con nomi e cognomi. Ripeto: non è la cattiveria a rendere reale la storia.
Già dal primo libro Dave Robicheaux dimostra di avere a che fare con il reale nelle sue forme più o meno peggiori e non aver con un qualche nuovo serial killer made in fantasy. Personalmente credo questo sia un successo per la letteratura. Da qui in poi (da allora fino all’oggi), Burke evita accuratamente il topos dell’assassino che uccide e sfregia il corpo di vittime per un motivo (arcano? recondito? sacrale? mistico?) che solo al termine di centinaia di pallosissime pagine verrà disgelato al povero lettore. Burke non segue questa lucrosa traiettoria. La cattiveria fotografata da Burke è autentica. E’ fisica. E’ morale. I cattivi appartengono a una ramificazione di esistenza terrena e – una scelta dietro l’altra – finiscono con il progettare e realizzare il male. Dopo Seven, il Silenzio degli innocenti ed Henry pioggia di sangue, il serial killer non dovrebbe più esistere, ne al cinema ne in letteratura. E’ come se dopo l’Odissea ogni altro romanzo epico dovesse averne gli stessi elementi. E’ come se dopo Moby Dick dovessero esserci balene, capitani e mozzi in ogni dove. Niente da fare. Per James Lee Burke il “cattivo” è reale. Il male c’è davvero, non è il “caso deviante” più o meno raro replicato all’infinito. E non è nemmeno il segno immediato di un potere lontano e misterioso che governa qualcosa da qualche parte. Il male è sulla terra e l’uomo può esserne schiavo ora, oggi, in queste città, in queste vie, “nonostante” gli olenadri e la serena pace dei bajou. Il male può avere un volto, il volto del cattivo che lo realizza, come il gen. Abshire, per realizzare sogni di potere molto tangibili, per seguirne le passioni eterne, per accudire propri desideri di controllo o di gloria. E quando il “cattivo” raggiungerà uno dei suoi apici, vale a dire nel Will Buchalter di Rabbia a New Orleans, si capirà che il “male”, pur se figlio legittimo di fiction, è tangibile, cammina, ha sentimenti profondi, ascolta il jazz, ama la letteratura. Come Stalin, che “amava Mozart più della guerra….”