I “cattivi” di Jim Burke sono “realmente cattivi”. Uno potrebbe dire: che razza di osservazione è questa? Siamo nella più pura banalità… E invece no (secondo me, almeno). Cerco di motivare l’affermazione apparentemente banale: i cattivi di Jim sono “cattivi perché reali” e non “reali perché cattivi”. Bobby Joe Starkweather, Larry Wineburger, Didi Gee Giacano, Julio Segura, Philip Murphy, come pure il corrotto Nate Baxter, realizzano il male in modo assolutamente tangibile: guardando i “cattivi” di Pioggia al neon, si scopre che sono una filiera umana che si svolge e si dipana dalle prime pagine fino alle ultime “facendo cose reali”. Può pure essere che il cattivo sia a servizio di un “buono che ha perso la ragione”, di un “buono a cui è stata fatta violenza”, vale a dire il generale Jerome Gaylan Abshire, non importa. In Pioggia al neon ci sono mercenari e torturatori che vengono dal Nicaragua, professionisti dei servizi segreti deviati e poliziotti marci, ma benestanti, mafiosi malati e condannati a morte, puttane che pagano a un prezzo altissimo la propria incapacità a vivere e papponi tossici oltre il dovuto. Il tutto per realizzare un progetto, vero, autentico, con nomi e cognomi. Ripeto: non è la cattiveria a rendere reale la storia.
Già dal primo libro Dave Robicheaux dimostra di avere a che fare con il reale nelle sue forme più o meno peggiori e non aver con un qualche nuovo serial killer made in fantasy. Personalmente credo questo sia un successo per la letteratura. Da qui in poi (da allora fino all’oggi), Burke evita accuratamente il topos dell’assassino che uccide e sfregia il corpo di vittime per un motivo (arcano? recondito? sacrale? mistico?) che solo al termine di centinaia di pallosissime pagine verrà disgelato al povero lettore. Burke non segue questa lucrosa traiettoria. La cattiveria fotografata da Burke è autentica. E’ fisica. E’ morale. I cattivi appartengono a una ramificazione di esistenza terrena e – una scelta dietro l’altra – finiscono con il progettare e realizzare il male. Dopo Seven, il Silenzio degli innocenti ed Henry pioggia di sangue, il serial killer non dovrebbe più esistere, ne al cinema ne in letteratura. E’ come se dopo l’Odissea ogni altro romanzo epico dovesse averne gli stessi elementi. E’ come se dopo Moby Dick dovessero esserci balene, capitani e mozzi in ogni dove. Niente da fare. Per James Lee Burke il “cattivo” è reale. Il male c’è davvero, non è il “caso deviante” più o meno raro replicato all’infinito. E non è nemmeno il segno immediato di un potere lontano e misterioso che governa qualcosa da qualche parte. Il male è sulla terra e l’uomo può esserne schiavo ora, oggi, in queste città, in queste vie, “nonostante” gli olenadri e la serena pace dei bajou. Il male può avere un volto, il volto del cattivo che lo realizza, come il gen. Abshire, per realizzare sogni di potere molto tangibili, per seguirne le passioni eterne, per accudire propri desideri di controllo o di gloria. E quando il “cattivo” raggiungerà uno dei suoi apici, vale a dire nel Will Buchalter di Rabbia a New Orleans, si capirà che il “male”, pur se figlio legittimo di fiction, è tangibile, cammina, ha sentimenti profondi, ascolta il jazz, ama la letteratura. Come Stalin, che “amava Mozart più della guerra….”

Il tenente Robicheaux del dipartimento di polizia di New Orleans “nasce” con Pioggia al Neon e – per fortuna – non è ancora morto vent’anni dopo. Ha un soprannome, Streak, ed è un personaggio poco malleabile, da qualsiasi parte lo si prenda. Non è a casa sua nemmeno nella polizia e non a caso già alla fine del primo libro, si dimette dalla polizia: “Con il tempo ho imparato che il punteggio va avanti da solo. Tu continui a tenere sotto pressione il battitore, poi un giorno alzi la testa e guardando il tabellone scopri con piacevole stupore che il tuo punteggio è aumentato”. Ama il blues e ne ha una conoscenza-esperienza comune a tutti coloro che vivono in Louisiana. Riflettendo su Golden chain di Blind Lemon Jefferson, dice tra sè e sè: “Mi chiesi come mai solo i neri sembravano trattare realisticamente la morte nelle loro produzioni artistiche. I bianchi ne scrivevano come fosse un’astrazione, la usavano come strumento poetico, se ne preoccupavano solo quando era lontana. La maggior parte delle poesie di Shakespeare e Frost sulla morte sono state scritte quando erano ancora giovani. Quando Billie Holiday, Blind lemon Jefferson o Leadbelly cantavano della morte, sentivi il cane del fucile del secondino, vedevi una figura nera appesa ad un albero e alle sue spalle un sole tinto di rosso….”.
Nel team dei commissari-detective-PI della letteratura, Robicheaux entra saltando la fase della panchina, delle riserve: è subito lì a giocare in serie A, con Maigret, Nestor Burma, Sam Spade e Philip Marlowe. Vive modestamente, si cura del suo fisico, apprezza la cucina della sua terra, cerca di star lontano dall’alcool e non sviene per ogni sottanella che gli passa davanti. Conserva la forte presenza di un padre (scomparso) autentico e sincero. Non è “schierato”. Non ha amici: l’unico “compagno” è (almeno i nquesto primo libro) piuttosto ambiguo. Ha combattuto in Vietnam. Conosce pregi e difetti dell’animo umano e per questo non giudica “a priori”, ma lascia giudicare Dio.
Già: Dave ha qualcosa di assolutamente imprevisto e insolitamente nuovo, è cattolico. Come Jim Burke che l’ha creato. Non so perché, ma questo è un elemento che me lo fa sentire fuori da qualsiasi standard precedente. E per questo lo amo di più. Quando il richiamo dell’alcool si fa forte, Dave se ne torna sulla sua houseboat e si dice un rosario. Più tardi prega “Dio Onnipotente, no nmi abbandonare, anche se io Ti ho abbandonato”. E mentre l’epilogo giunge per lui come per il mafioso DidiGee Giacano pensa “se non manteniamo le promesse che facciamo a Dio, perché dovremmo mantenere quelle fatte agli amici e ai superiori?”. Che ci fa un detective violento con il rosario in mano? Siamo dalle parti della Leggenda del Santo bevitore di Joseph Roth.
Dave ha un difetto, evidente e colossale: non ha senso dell’umorismo. Non è Marlowe, che spesso discute con assassini o mandanti con il sorriso sulle labbra e nemmeno Grave Digger, risate e calibro 9. Dave si porta sempre sulle spalle il peso immane della sua esistenza barcollante e del mondo, ovunque vada e chiunque incontri. Credo sia il segno di quanto partecipata sia l’esistenza del suo autore.

PIOGGIA AL NEON

ottobre 14, 2007

   L’apparire di Pioggia al neon in libreria (alcuni anni fa e poi ora che Meridiano Zero l’ha ripubblicato) ci riporta “all’inizio” della vicenda di Dave Robicheaux e dell’opera di James Lee Burke. Il libro è del 1987 (pubblicato negli Usa da Henry Holt & Company). La storia inizia nei giorni che precedono un’esecuzione capitale e termina con una vecchina di colore che sale sul tram e dice “Pioverà a catinelle stasera”. In mezzo ci stanno tante cose: il tentato omicidio del fratello di Dave, Jimmie, le morti brutali di alcuni buoni e di alcuni cattivi, un traffico internazionale d’armi in cui sono coinvolti mafiosi, gangsters, killer e vecchi militari nobili nell’onore, ma senza più bussola morale. In mezzo – tra giovani puttane, junkie e cinema porno – ci stanno i guai del tenente della omicidi di New Orleans, Dave Robicheaux, che nel dipanarsi della vicenda se la vede bruttissima con i fantasmi del suo passato (o presente….) da alcolista e con un collega-amico (Clete Purcel) simpatico, quanto inguaiato personalmente e ambiguo in certe “scelte professionali”. C’è anche qualche raggio di sole, nella vita del tenente, che infatti (a pag. 42) incontra e ama un’assistente sociale, Annie Ballard, “sotto i 30, capelli mossi dal vento e grandi occhi“, che diventerà sua moglie.
Ma in mezzo, nel cuore della storia, tra l’esecuzione nel carcere di Angola e l’epilogo, ci stanno i colori, gli odori, la musica e i sapori di New Orleans, della sua terra, della sua gente. Qui sta la novità assoluta. C’è tanta gente che mangia poor boy, una sorta di maxi panino farcito con insalata, salsa cajun, ostriche e gamberetti. C’è Dave che si mangia beignet al Cafè du Monde (che è un posto abitualmente frequentato da Burke: chi non c’è stato deve provare ad immaginarselo: un locale di metà Ottocento, in legno e ghisa, tutto verde e giallo, con le poltroncine in pelle blu e rossa; è stato ri-sistemato dopo Katrina). C’è tanto blues (come ha scritto Marco Denti nel magnifico pezzo da noi pubblicato) e ci sono tante riflessioni-blues. C’è anche tanta “presenza religiosa”: Dave è cattolico e tra una sbronza e un omicidio tenta di affidare la sua anima a Dio. C’è tanta vita, tanta realtà, tanto sguardo partecipato alle cose. Si seguono le pagine e “si vive New Orleans e la Louisiana” così come Simenon faceva vivere Parigi.
In tutto questo dispiegarsi di vita e letteratura, Robicheaux nasce come personaggio, mentre James Lee Burke nasce come autore (anche se ha già pubblicato sei titoli). La letteratura “non di genere” ha trovato un nuovo autore da seguire. Gli appassionati del noir hanno un nuovo personaggio da seguire. Questo accadeva nell’87. Ri-leggere oggi Pioggia al neon oppure leggerlo per la prima volta conferma la grandezza dell’esordio. Non è un giallo. Non è un noir. E’ un ROMANZO. La differenza non sto a spiegarla….