Nel numero del Buscadero di ottobre c’è una bellissima intervista a James Lee Burke. Opera di Marco Denti e Mauro Zambellini. E’ uscita con il titolo di Louisiana Rain. La pubblichiamo ringraziando Marco, Mauro e Paolo Caru (editore del Buscadero) per la disponibilità.

Le storie di James Lee Burke sono come il buon vecchio rock’n’roll: sai come funziona, ma non sai mai come andra’ a finire. Tutto e’ cominciato con “Pioggia al neon” che inaugurava, giusto vent’anni fa, la saga di Dave Robicheaux, uno dei nostri loser preferiti, un personaggio che guarda dalla Louisiana un mondo in rovina, ma con l’attitudine e un disincanto che non e’ disillusione. Come direbbe uno dei suoi (e nostri) scrittori preferiti, Hemingway: e’ un mondo di merda, ma e’ l’unico che abbiamo. Dave Robicheaux lotta cosi’, senza sosta, spesso oltre i confini del suo mandato e della sua morale e non lo fa con l’alone del giustiziere, del crociato o del vendicatore ma soltanto perche’ non ha alternativa. O combatte, o soccombe alla corruzione, all’ipocrisia, alla falsita’, in definitiva all’inquinamento della vita come della natura, che poi sono la stessa cosa. Abbiamo imparato a conoscere le sue gesta sotto la “Pioggia al neon”, e poi in “Sunset Limited”, “La ballata di Jolie Blon”, “Ultima corsa per Elysian Fields” e “Ti ricordi di Ida Durbin?” (tutti tradotti e e pubblicati in Italia da Meridiano Zero) riconoscendo in Dave Robicheaux uno di noi e in James Lee Burke un grande storyteller che magari non trovera’ mai quattro righe nelle enciclopedie di letteratura e ancora meno un posto all’accademia. Forse e’ meglio cosi’: nonostante l’odore salmastro delle paludi, i serpenti mocassini, le “muddy waters”, i fantasmi e gli spiriti, l’aria del bayou resta sempre la piu’ pulita.

“Pioggia al neon” e’ stato il primo romanzo della saga di Dave Robicheaux. In prospettiva, guardando a ritroso tutti gli episodi, che impressione ti fa? Cosa provi per Dave Robicheaux, dopo vent’anni?

Credo che Dave Robicheaux sia cresciuto come personaggio. Ogni romanzo e’ stato inteso per essere una storia indipendente, ognuno di loro legato ad un differente contesto sociale e politico. In effetti, per rispondervi, credo che Dave sia piu’ che altro un testimone di molti dei piu’ importanti eventi della nostra epoca.

Ti identifichi ancora in lui?

Si’, direi di si’, in un certo senso. Usando la prima persona e’ piu’ facile sentire la voce dentro di te: il personaggio e’ sempre dentro l’autore, credo. La sfida non e’ lasciar dominare la storia dall’ego del personaggio, ma creare dei personaggi che possano entrare senza problemi nella casa dei lettori.

Uno dei motivi per cui i tuoi romanzi ci sono cosi’ famigliari e’ che fin da “Pioggia al neon”, ma poi in ognuna delle storie di Dave Robicheaux, la musica e’ sempre stata un elemento fondamentale nei tuoi romanzi.

Si’, assolutamente, la musica e’ al centro di qualsiasi cosa io scriva. L’italiano e’ probabilmente il linguaggio piu’ musicale dell’intera famiglia umana, ma l’inglese cade dentro un beat naturale che in un certo senso e’ musicale quanto l’italiano. In piu’ il blues e il jazz e il rock ‘n’ roll sono le piu’ nitide forme d’arte americane e penso che ogni buon scrittore americano ad un certo punto prova ad incorporare queste tradizioni nel suo lavoro. Quando lo faccio penso sempre alla Carter Family, a Woody Guthrie, a Leadbelly, a Kid Orey e a Benny Goodman che credo siano i musicisti piu’ importanti nella nostra cultura.

La connessione con la musica e’ ancora piu’ particolareggiata perche’ la Louisiana e’ un territorio dove la musica ha un ruolo storico fondamentale e cio’ diventa evidente nei tuoi romanzi. Dal tuo punto di vista, e’ perche’ non si puo’ separare la musica dalla Louisiana, e viceversa?

Si’, nella mia testa musica e Louisiana sono sinonimi. La Louisiana ci ha dato i migliori musicisti di jazz e di rhythm and blues, la tradizione afroamericana comincia e finisce qui. Come dicevano Danny and the Juniors molto tempo fa: “We don’t care what people say, rock’n’roll is here to stay”.

Volendo essere piu’ precisi?

Uhm, direi che semplicemente chi scrive dell’America blue-collar o del Southeast dovrebbe necessariamente scrivere della musica della gente, anche perche’ molti dei miti americani vengono proprio da qui. Un antropologo, credo nel 1958 o 1959, disse che gli americani erano rimasti affascinati da Elvis perche’ aveva tutte le caratteristiche di un dio greco. Era un personaggio mitico, ma nello stesso tempo rappresentava tutto il mistero del Sud. Era un ragazzo da Tupelo, Mississippi e la sua storia ha riempito i sogni di ogni persona della working class in questo paese, ma nello stesso tempo e’ finita tragicamente. La sua vita, ma anche quella di Carl Perkins, Roy Orbison o Jerry Lee Lewis sono icone culturali americane, riempite di musica, e religione, e poverta’ e disperazione.

Tra le citazioni che spiccano, bisogna ricordare almeno “The Things That I Used To Do” di Guitar Slim in “La ballata di Jolie Blon”.

Il blues, per la gente di colore, significa un assoluto e irrisolto senso di perdita. Molti vecchi bluesmen che ho conosciuto credevano che il blues fosse la musica del diavolo perche’ aveva a che fare con il mondo dei juke joints, delle droghe, della prostituzione. Per quella ragione, qualcuno di loro, dopo aver scoperto la religione, non ha voluto cantare piu’ il blues. Non sono assolutamente d’accordo con le loro conclusioni teologiche sul blues, ma capisco il terribile legame che li turba. Il miglior esempio, non c’e’ dubbio, e’ Robert Johnson.

Spiriti e fantasmi non sono un’eccezione nei tuoi romanzi. Perche’?

Credo che questo mondo sia un’estensione di un mondo che non vediamo. La mia idea della creazione e’ la stessa di Emerson o Plotino, credo. Siamo sempre dentro l’eternita’, solo che non l’abbiamo ancora capito.

E’ anche un legame con gli elementi naturali, in fondo, a cui dedichi molto spazio.

Come scrittore, sono stato influenzato pesantemente dai naturalisti, di conseguenza il paesaggio, spesso e volentieri, e’ quasi il protagonista delle mie storie. D’altro canto penso che stiamo distruggendo la terra. Sfortunatamente questo paese e’ controllato dai leader dell’industria petrolchimica e fino a quando non cambiaremo il nostro modo di vivere, qui come in Cina o in India, la situazione puo’ solo peggiorare.

Non dobbiamo andare molto lontano per trovare una conferma alle tue parole. Katrina ha cambiato la faccia e la vita di New Orleans. E’ ancora possibile raccontare un noir dopo quello che e’ successo o la corruzione contro cui combatteva Dave Robicheaux e’ nulla rispetto al noir del disastro?

Direi che e’ ancora piu’ necessario. Il mio nuovo romanzo, “The Tin Roof Blowdown”, e’ legato agli eventi di Katrina e tutto cio’ che ne e’ seguito. Spero che sia un ritratto accurato degli eventi che si sono susseguiti a New Orleans in quel periodo perche’ la vicenda di Katrina rimane forse il peggior scandalo nella storia del nostro paese. Quello che e’ successo ha mostrato un livello di cinismo e di indifferenza che probabimente sara’ una fonte inesauribile di disgusto per il resto della nostra storia.

Questo ricorda un po’ Dave Robicheaux che spesso sembra combattere una guerra che non potra’ mai vincere e mantiene un’attitudine tra malinconia e indifferenza perche’, alla fine, sembra che non cambi mai nulla, che la stessa gente continui a comandare, spesso in modo stupido e arrogante. E’ lo stesso feeling che aveve provato durante i due mandati dell’amministrazione Bush?

Quello che prova Dave e’ che la battaglia non e’ mai finita, il terreno non sara’ mai nostro e l’era Bush e’ uno di quei momenti in cui non si riesce a vivere con dignita’. Siamo stati terribilmente sminuiti agli occhi del mondo e, quello che e’ peggio, abbiamo perso la visione di noi stessi. Non ho abbandonato la speranza che un giorno o l’altro ci ritroveremo, ma non sono proprio sicuro che accadra’.

Dipende anche dal fatto che la violenza sembra non avere piu’ limitazioni e in un modo o nell’altro e’ diventata parte della nostra vita quotidiana, come lo e’ in quella di Dave Robicheaux?

Si’, e’ cosi’. Dave spiega sempre che la violenza e’ l’ultimo rifugio degli emarginati, di chi non e’ organico a nessuna istituzione. In definitiva, e’ una forma di fallimento morale. E’ l’ultima risorsa degli intelligenti e dei coraggiosi. Guardate Dave: quando agisce in modo violento, di solito e’ in difesa di qualcun altro. E’ orribile dirlo, ma e’ una parte della vita umana e in America piu’ di ogni altro posto. Siamo nati da una rivoluzione violenta e siamo sempre stati in guerra fin da allora. Non siamo un popolo pacifico.

In un certo senso, sembra che la letteratura noir abbia preso il posto del romanzo sociale. Negli Stati Uniti come in Francia, in Spagna, in Italia o in Sud America o in Svezia, molti scrittori usano il crimine per denunciare la corruzione, le connivenze politiche, gli abusi di potere e le ingiustizie sociali. Credi che la letteratura noir stia diventando una letteratura di critica sociale?

Siete assolutamente nel giusto. Ho provato ad usare i miei romanzi, che normalmente vengono definiti romanzi noir, nello stesso modo in cui James M. Cain, James T. Farrell e John Steinbeck scrivevano i loro.

Per concludere: quali sono i tuoi scrittori preferiti e come nasce un tuo romanzo?

Ernest Hemingway. John Cheever, William Faulkner, Tennesse Williams, Flannery O’Connor, Graham Greene, ma mi e’ piaciuto moltissimo anche “Mystic River” di Dennis, Lehane, un libro che e’ un capolavoro. Ho imparato da loro: una scena alla volta, una volta al giorno. Non so mai da che parte andra’ la storia o come finira’. Venitemi a trovare, che ne parliamo con calma, ma nel frattempo state belli allegri, tenete accordate le chitarre e non perdete di vista tutti quei vecchi rhythm and blues.

a cura di Marco Denti e Mauro Zambellini

Avevo avuto la sensazione che ci fosse una particolarissima relazione tra le ultime cose scritte da James Lee Burke e l’ultimo disco di Mary Gauthier, cantautrice di New Orleans. L’avevo scritto alcuni giorni fa. Era una sensazione, nulla più. Poi sono riuscito a intervistarla e… la verità ha confermato la sensazione. Ecco cosa mi ha risposto:

WG – Personalmente sento nelle tue canzoni grandi collegamenti con una certa letteratura. Una canzone come Cant’ find way home mi ricorda un recente racconto di James Lee Burke, Jesus out to the sea. In altri momenti mi viene in mente Flannery O’Connor o Faulkner…
Mary Gauthier – Guarda, ho appena terminato di leggere l’ultimo libro di Burke, Tin roof blow down e ho la sua raccolta di racconti Jesus out to the sea. Sono una sua vera fan. Sono anche stata nella casa di Flannery O’Connor e sono anche innamorata della sua letteratura. In effetti questi due scrittori mi hanno influenzato profondamente, più di qualsiasi altro. 
 

Fa piacere trovare due figli della Louisiana così in sintonia. Per chi vuol leggere l’intervista completa, questa è l’url: http://www.risonanza.net/?p=82. E lasciate pure i vostri commenti….

L’estate 2007 è stata un momento di gran lavoro per attori, tecnici, scenografi e in genere per tutta la troupe di In the electric mist with the confederate dead, il film che sta nascendo dalle pagine di quello che in Italia era stato pubblicato con il titolo di L’occhio del ciclone. Regista del film tratto dal 12° libro di Burke è il francese (curiosa la scelta, un francese che racconta una storia di “francesi d’America….”) Bernard Tavernier, che ha già firmato il magnifico Round midnight. Il film è ricco di begli attori, ma soprattutto vede Dave Robicheaux interpretato dal grande Tommy Lee Jones. E’ un film di “musicisti”: c’è Levon Helm (the Band) e c’è soprattutto Buddy Guy che interpreta il musicista Sam ‘Hogman’ Patin (quindi un Buddy guy che non fa il chitarrista, bensì il suonatore di accordion…).  Il volto di Bootsie sarà quello di Mary Steenburgen, mentre John Goodman darà “corpo” a “baby feet” Balboni. La previsione di uscita del film sugli schermi italiani è per la prossima primavera…

Il tenente Robicheaux del dipartimento di polizia di New Orleans “nasce” con Pioggia al Neon e – per fortuna – non è ancora morto vent’anni dopo. Ha un soprannome, Streak, ed è un personaggio poco malleabile, da qualsiasi parte lo si prenda. Non è a casa sua nemmeno nella polizia e non a caso già alla fine del primo libro, si dimette dalla polizia: “Con il tempo ho imparato che il punteggio va avanti da solo. Tu continui a tenere sotto pressione il battitore, poi un giorno alzi la testa e guardando il tabellone scopri con piacevole stupore che il tuo punteggio è aumentato”. Ama il blues e ne ha una conoscenza-esperienza comune a tutti coloro che vivono in Louisiana. Riflettendo su Golden chain di Blind Lemon Jefferson, dice tra sè e sè: “Mi chiesi come mai solo i neri sembravano trattare realisticamente la morte nelle loro produzioni artistiche. I bianchi ne scrivevano come fosse un’astrazione, la usavano come strumento poetico, se ne preoccupavano solo quando era lontana. La maggior parte delle poesie di Shakespeare e Frost sulla morte sono state scritte quando erano ancora giovani. Quando Billie Holiday, Blind lemon Jefferson o Leadbelly cantavano della morte, sentivi il cane del fucile del secondino, vedevi una figura nera appesa ad un albero e alle sue spalle un sole tinto di rosso….”.
Nel team dei commissari-detective-PI della letteratura, Robicheaux entra saltando la fase della panchina, delle riserve: è subito lì a giocare in serie A, con Maigret, Nestor Burma, Sam Spade e Philip Marlowe. Vive modestamente, si cura del suo fisico, apprezza la cucina della sua terra, cerca di star lontano dall’alcool e non sviene per ogni sottanella che gli passa davanti. Conserva la forte presenza di un padre (scomparso) autentico e sincero. Non è “schierato”. Non ha amici: l’unico “compagno” è (almeno i nquesto primo libro) piuttosto ambiguo. Ha combattuto in Vietnam. Conosce pregi e difetti dell’animo umano e per questo non giudica “a priori”, ma lascia giudicare Dio.
Già: Dave ha qualcosa di assolutamente imprevisto e insolitamente nuovo, è cattolico. Come Jim Burke che l’ha creato. Non so perché, ma questo è un elemento che me lo fa sentire fuori da qualsiasi standard precedente. E per questo lo amo di più. Quando il richiamo dell’alcool si fa forte, Dave se ne torna sulla sua houseboat e si dice un rosario. Più tardi prega “Dio Onnipotente, no nmi abbandonare, anche se io Ti ho abbandonato”. E mentre l’epilogo giunge per lui come per il mafioso DidiGee Giacano pensa “se non manteniamo le promesse che facciamo a Dio, perché dovremmo mantenere quelle fatte agli amici e ai superiori?”. Che ci fa un detective violento con il rosario in mano? Siamo dalle parti della Leggenda del Santo bevitore di Joseph Roth.
Dave ha un difetto, evidente e colossale: non ha senso dell’umorismo. Non è Marlowe, che spesso discute con assassini o mandanti con il sorriso sulle labbra e nemmeno Grave Digger, risate e calibro 9. Dave si porta sempre sulle spalle il peso immane della sua esistenza barcollante e del mondo, ovunque vada e chiunque incontri. Credo sia il segno di quanto partecipata sia l’esistenza del suo autore.

PIOGGIA AL NEON

ottobre 14, 2007

   L’apparire di Pioggia al neon in libreria (alcuni anni fa e poi ora che Meridiano Zero l’ha ripubblicato) ci riporta “all’inizio” della vicenda di Dave Robicheaux e dell’opera di James Lee Burke. Il libro è del 1987 (pubblicato negli Usa da Henry Holt & Company). La storia inizia nei giorni che precedono un’esecuzione capitale e termina con una vecchina di colore che sale sul tram e dice “Pioverà a catinelle stasera”. In mezzo ci stanno tante cose: il tentato omicidio del fratello di Dave, Jimmie, le morti brutali di alcuni buoni e di alcuni cattivi, un traffico internazionale d’armi in cui sono coinvolti mafiosi, gangsters, killer e vecchi militari nobili nell’onore, ma senza più bussola morale. In mezzo – tra giovani puttane, junkie e cinema porno – ci stanno i guai del tenente della omicidi di New Orleans, Dave Robicheaux, che nel dipanarsi della vicenda se la vede bruttissima con i fantasmi del suo passato (o presente….) da alcolista e con un collega-amico (Clete Purcel) simpatico, quanto inguaiato personalmente e ambiguo in certe “scelte professionali”. C’è anche qualche raggio di sole, nella vita del tenente, che infatti (a pag. 42) incontra e ama un’assistente sociale, Annie Ballard, “sotto i 30, capelli mossi dal vento e grandi occhi“, che diventerà sua moglie.
Ma in mezzo, nel cuore della storia, tra l’esecuzione nel carcere di Angola e l’epilogo, ci stanno i colori, gli odori, la musica e i sapori di New Orleans, della sua terra, della sua gente. Qui sta la novità assoluta. C’è tanta gente che mangia poor boy, una sorta di maxi panino farcito con insalata, salsa cajun, ostriche e gamberetti. C’è Dave che si mangia beignet al Cafè du Monde (che è un posto abitualmente frequentato da Burke: chi non c’è stato deve provare ad immaginarselo: un locale di metà Ottocento, in legno e ghisa, tutto verde e giallo, con le poltroncine in pelle blu e rossa; è stato ri-sistemato dopo Katrina). C’è tanto blues (come ha scritto Marco Denti nel magnifico pezzo da noi pubblicato) e ci sono tante riflessioni-blues. C’è anche tanta “presenza religiosa”: Dave è cattolico e tra una sbronza e un omicidio tenta di affidare la sua anima a Dio. C’è tanta vita, tanta realtà, tanto sguardo partecipato alle cose. Si seguono le pagine e “si vive New Orleans e la Louisiana” così come Simenon faceva vivere Parigi.
In tutto questo dispiegarsi di vita e letteratura, Robicheaux nasce come personaggio, mentre James Lee Burke nasce come autore (anche se ha già pubblicato sei titoli). La letteratura “non di genere” ha trovato un nuovo autore da seguire. Gli appassionati del noir hanno un nuovo personaggio da seguire. Questo accadeva nell’87. Ri-leggere oggi Pioggia al neon oppure leggerlo per la prima volta conferma la grandezza dell’esordio. Non è un giallo. Non è un noir. E’ un ROMANZO. La differenza non sto a spiegarla….  

Son passati alcuni anni da un magnifico pezzo uscito a firma Marco Denti su Lateforthesky. Lo pubblichiamo. Grazie Marco!

 Ci vuole una cartina della Louisiana per seguire Dave Roubicheaux, il protagonista di gran parte dei romanzi di James Lee Burke. Oltre al fatto che il posto dove abita e’ al centro di un’intricata rete di sentieri e strade sterrate, canali e paludi, lui ci mette del suo perche’ e’ sempre in giro in cerca di guai. Gli riesce benissimo perche’ New Iberia e’ un sottoprodotto di New Orleans e Dave Robicheaux e’ invece una conseguenza tipica dell’America marginale e minoritaria. Ha tutte le doti del perfetto loser: veterano del Vietnam (una mina l’ha rispedito a casa pieno di scheggie), gia’ poliziotto con un grande senso per la giustizia e nessuno rispetto per l’istituzione fragile e corrotta e, infine, un passato da alcolista. Fin qui e’ tutta roba da New Orleans, o meglio dei suoi bassifondi. Non a caso, Dave Robicheaux ha lasciato la jungleland cittadina per trovare un po’ di tranquillita’ in un capanno con relativo molo sul Golfo. E’ qui che l’eroe principale di James Lee Burke vorrebbe trascorrere i suoi anni in compagnia di una sorta di famiglia con tanto di figlia adottiva e procione al seguito (ognuno ha gli animali domestici che si merita) nonche’ pescando fino al tramonto. Pero’, come diceva in “L’angelo in fiamme” (forse uno dei suoi romanzi piu’ affascinanti) “l’inferno non ha confini” e, per forza maggiore, Dave Robicheaux si ritrova coinvolto in un caso dopo l’altro. Con esplosioni di violenza feroce e lancinante, che James Lee Burke concretizza, come meglio non si potrebbe, attono al personaggio di Dave Roubicheaux, senza dimenticare il complesso contesto in cui avviene. In un’intervista ha detto: “La violenza e’ il primo rifugio per gli emarginati e gli ignoranti. E’ una sorta di fallimento morale. E’ sempre l’ultima risorsa degli intelligenti e dei coraggiosi. Quando Dave agisce con violenza e’ sempre in difesa di qualcuno, e sempre per risolvere definitivamente la violenza circostante. E’ orribile, ma e’ qualcosa che ha veramente una parte determinante nella realta’ umana. Noi critichiamo la violenza tutti i giorni in questo paese, ma guarda alla nostra storia. Siamo nati con una rivoluzione violenta e da allora siamo stati in tutte le guerre. Non siamo un popolo pacifico”. Non lo si puo’ smentire, nemmeno nel 2001. A partire da questa base, che mette insieme avventura, noir e thriller, i menu’ di Dave Robicheaux non sono particolarmente raffinati: se non e’ soul food sono gamberetti e gamberetti e ancora gamberetti. Ogni tanto un po’ di ostriche come aperitivo, nulla di piu’. Uguale, le storie di James Lee Burke che, pur vantando la stima di una scrittrice come Kaye Gibbons e amici che si chiamano Jim Harrison, Thomas McGuane, Hunter Stockton Thompson (nonche’ la definizione di Jonathan Kellerman, a sua volta scrittore: “James Lee Burke e’ il William Faulkner della crime fiction”) sembra tornare a rimasticare il solito blues, magari piu’ o meno ispirato. Un motivo lo suggeriscono ancora quattro righe de “L’angelo in fiamme”: “Mi sono spesso trovato a pensare che la storia non sia una sequenza lineare, e che tutti i protagonisti della vicenda umana conducano le loro esistenze simultaneamente, forse in dimensioni diverse, ma occupando gli stessi luoghi a insaputa gli uni degli altri, come se tutti gli esseri umani fossero figli di un unico concepimento spirituale”. Avendo letto a sua volta Ernest Hemingway, Eudora Welty, Flannery O’Connor, Tennessee Williams, Robert Penn Warren, John Steinbeck e John Cheever perche’ “loro hanno creato gli stampi e noi abbiamo imparato”, James Lee Burke sa che anche la piu’ insignificante, misera e disperata delle esistenze contiene un frammento di luce e continua a scavare nello stesso fango, perche’ quello che conta aleggia nell’aria. “Ci sono spiriti in tutte le mie storie. Io credo che ci siano spiriti anche nella vita reale e penso che il mondo visibile sia soltanto un’estensione di quello invisibile. Sono una sola entita’ e io credo in un potere superiore”: essendo Dave Robicheaux e James Lee Burke prigionieri di un’area dove il blues regna indiscriminatamente da sempre, essendoci nato, non e’ difficile intuire da dove arrivino i loro spiriti. Partendo da “See That My Grave Is Kept Clean” di Blind Lemon Jefferson, a suo tempo rivista dall’onnipresente Bob Dylan e poi dalla grandissima versione dai Dream Syndicate di “Ghost Stories”. Canzone che appare citata chiaramente in “Pioggia al neon” e visto che i morti ammazzati sono tutt’altro che una rarita’ nei romanzi di James Lee Burke, “See That My Grave Is Kept Clean” assume una valenza del tutto particolare. Ci pensa proprio lui a spiegarne il perche’, tra le righe dello stesso romanzo: “La maggior parte delle poesie di Shakespeare e Frost sulla morte erano state scrite quando erano ancora giovani. Quando Billie Holiday, Blind Lemon Jefferson o Leadbelly ne cantavano, sentivi il cane del fucile del secondino, vedevi una figura nera appesa a un albero con alle spalle un sole tinto di rosso, sentivi l’odore della bara di pino che veniva seppellita nella stessa terra che il mezzadro morto aveva coltivato per tutta la vita”. O morti, o in galera, la stessa Angola cantata da Aaron Neville e in cui i personaggi di “Piccola notte cajun” ricordano di avere incontrato “tre grandi chitarristi blues come Leadbelly, Robert Pete Williams e Hogma, Mathew Maxie”. Questi nomi non sono un’eccezione per James Lee Burke perche’, tra l’altro, ha conferito al suo detective imperfetto una passione che ci accomuna. Infatti Dave Robicheaux e’ un piccolo esperto e un grande fans perche’ colleziona 78 giri di swing, downhome blues e primissimo jazz (fara’ un eccezione al digitale per il favoloso “Screamin’ And Hollerin’ The Blues”, “The Worlds Of Charlie Patton”, che e’ un vero e proprio tesoro). Non e’ finita qui. C’e’ ancora blues in “L’occhio del ciclone” dove un bluesman suona Stagger Lee (si direbbe ispirato a Big Joe Williams, per via della chitarra e dello stile), canzone che da sola meriterebbe un’indagine di Dave Robicheaux e un romanzo intero di James Lee Burke (e una curiosita’ su “L’Occhio del ciclone”: nella copertina dell’edizione italiana c’e’ una bella fotografia di William Burroughs, chissa’ perche’). Infine, e’ proprio il territorio, il bayou, le paludi, il Mardi Gras e il voodoo, la corrente del Golfo (che ha un ruolo fondamentale in “Rabbia a New Orleans”), le ville coloniali e i campi di cotone a condividere la stessa geografia del blues. A volte i suoi romanzi sembrano fin troppo sdolcinati per quei tramonti infuocati, le albe lussureggianti, i bayou misterioso e miracoloso, ma Dave Robicheaux e’ un uomo che non fa distinzioni tra romanzo e romanticismo e vorrebbe che il lettore, questo strano oggetto del desiderio, provasse le sue stesse emozioni. Cosi’, ogni tanto, si lascia andare, come in questo passaggio di “Rabbia a New Orleans”: “Quando il sole rosso della sera sembrava accartocciarsi e fondersi nella brace che ardeva all’orizzonte, si vedeva l’alone delle luci di New Orleans prendere piano piano il suo posto e allargarsi nel cielo sempre piu’ scuro. Le nuvole erano nere, verdastre, basse sulla citta’, venate di lampi, e incombevano cupe da Barataria fino al lago Pontchartrain: voleva dire che nel giro di poco torrenti di pioggia avrebbero inondato le strade, sferzato le palme sulla passeggiata, otturato i tombini nel Quartiere Francese e riempito la galleria di querce in St. Charles Avenue di nebbiolina grigia, attraverso i cui i vecchi tram verniciati sarebbero avanti sui binari come inviati speciali del 1910”. Scenografia che puo’ trarre in inganno perche’ James Lee Burke e’ un narratore nella cui tavolozza si possono trovare tanto le istruzioni per la pesca d’alto bordo quanto mille ricette per cucinare i gamberetti, ma e’ anche un alchimista dei ricordi e della memoria (scrive in “Piccola notte cajun”: “Vi sono eventi a cui si assiste, o ai quali si partecipa, che rimangono eternamente sacri, inviolati nella memoria, per quanto doloroso sia il loro ricordo. E la ragione e’ il prezzo pagato, da te o da chiunque altro, per essere stato presente in quel momento, nell’istante in cui l’obiettivo ha scattato quell’immagine indelebile”), dei rapporti umani (“…raramente possiamo dire di conoscerci, e che siamo soltanto in grado di immaginare le vite che in ciascuno di noi attendono di essere vissute”…), del proprio essere (“Il tempo e l’eta’ mi avevano finalmente insegnato che vi era un momento in cui bisognava lasciarsi andare, dimenticare la serieta’ dell’universo, cedere agli altri il terribile dovere di prendere posizione su se stessi e sul mondo”) e un dispensatore di filosofia spicciola, utile a sopravvivere quando si divide la propria sorte con persone che “sono all’oscuro di come va il mondo”. A New Orleans e dintorni tutti conoscono tutti e Dave Roubicheaux e’ un’anomalia nei detective noir, ma i blues degli uomini sono uguali che nel resto del mondo. Cosi’ per seguire l’evoluzione e i viaggi dei personaggi di “L’angelo in fiamme”, “Prigionieri del cielo”, “Rabbia a New Orleans” (pubblicati da Baldini&Castoldi), di “Pioggia al neon” (pubblicato da Meridiano zero in una nuova edizione)  o quelli di “Piccola notte cajun” e “L’occhio del ciclone” (Mondadori) non serve una mappa della Louisiana o un navigatore satellitare GPS (la tecnologia e’ arrivata anche qui) puntato sul Delta, ma piuttosto le piccole intuizioni nate dall’osservazione, dai dialoghi, dai confronti che formano lo strano viaggio della vita. A proposito di biografie, anche quella di James Lee Burke sembra un romanzo. E’  nato ad Houston, Texas, nel 1936 ed e’ cresciuto sempre nell’ambito della Gulf Coast. Prima di affermarsi come narratore (il suo primo romanzo e’ del 1960, ma la fortuna ha cominciato a salutarlo soltanto vent’anni dopo e, per inciso, in Italia e’ stata tradotta una meta’ dei suoi romanzi) ha lavorato ha lungo nell’industria petrolifera, e’ stato assistente sociale nele strade di Los Angeles, reporter in Louisiana e persino un impiegato del servizio forestale federale nel Kentucky (lavoro quest’ultimo che non puo’ ricordare lo splendido Jack Kerouac di Angeli Della Desolazione). All’elenco, giusto per la cronaca, vanno aggiunti anche i ruoli di insegnante (alla Wichita State University, Kansas) e pompiere (chissa’ dove). Con moglie e quattro figli divide il suo tempo tra Missoula, Montanta e New Iberia, Louisiana: “i miei sogni mi hanno portato in molti luoghi” ha scritto, ma alla fine si torna sempre a casa. Marco Denti

   New Orleans, 
l’uragano Katrina, Jim Burke e Mary Gauthier. Quali sono i nessi? Eccoli, dannatamente semplici. JLBurke ha legato la sua vita a New Orleans e a New Iberia. Mary – cantante – è nata e cresciuta tra New Orleans e altre parti (spesso non belle) della Louisiana. Entrambi hanno dedicato qualcosa di molto particolare alla distruzione operata dall’uragano Katrina ai danni della loro città. Per Burke si tratta di un racconto, Jesus out to the sea (ne abbiamo già parlato…). Per Mary si tratta di una canzone, Cant’ find way home, compresa nel suo ultimo e bellissimo Between daylight and dark (per saperne di più sul disco: www.risonanza.net) . La canzone narra il dramma di chi – come Mary – ha guardato in tivù la marea dell’acqua che distruggeva la sua città, il suo quartiere, la sua casa, senza poter “tornare a casa”….  Jim e Mary, lontani, probabilmente nemmeno si conoscono, eppure così drammaticamente vicini nel modo di sentire, di raccontare, di scrivere o cantare….

Can’t find way home (MARY GAUTHIER)

This is not my street
This is not my house
That is not my bed
This is not my town
Another day another night
Another night another day
I wanna go home
I can’t find the way
The levee broke the water came
Went all the way up to my roof
I crawled up there and cried
What else could I could do?
Another day another night
Another night another day
I wanna go home
I can’t find the way
A boat brought me to I-10
I sat there three days, maybe four
Thousands stranded on the interstate
Every hour boats brought more
Another day another night
Another night another day
We wanna go home
We can’t find the way
With nothing but our dreams
And memories of who we’ve been
Scattered forth like seeds
At the mercy of the wind
Another day another night
Another night another day
We wanna go home
We can’t find the way

Another day another night
Another night another day
We wanna go home
We can’t find the way